Il futuro è dietro l’angolo. E il modello venezuelano anche.

 

> Di Pietro Romano >>

 

L’industria manifatturiera italiana ha resistito meglio di ogni altra in Europa allo tsunami economico innescato dall’emergenza sanitaria.

Nella comparazione tra le prestazioni delle principali economie continentali, nel periodo gennaio-luglio, la perdita cumulata del manifatturiero tricolore rispetto
allo stesso periodo del 2019 risulta del 6,6%, un dato meno severo della media europea (-7,5%) e di Francia (-6,8%), Regno Unito (-7,9%) e soprattutto Germania (-11,5%).

 

Proprio la Germania è il primo Paese manifatturiero d’Europa, seguita dall’Italia, che genera il 12% del valore aggiunto complessivo del manifatturiero Ue.

A renderlo noto una indagine condotta dal Centro studi della Cna, la principale organizzazione italiana di artigiani e imprese piccole e medie. Dove si sottolinea
anche il ruolo fondamentale di questa risorsa per lo sviluppo socio-economico italiano: il suo valore aggiunto risulta quasi un quinto di quello nazionale complessivo, per investimenti raggiunge
una quota ancora superiore, prima della crisi contava 480mila imprese con circa quattro milioni di occupati e 961 miliardi di valore aggiunto. La bellezza di oltre 240mila euro a occupato.

 

Che cosa abbia determinato la capacità del sistema manifatturiero italiano a reagire così prontamente alla crisi può essere oggetto di discussione. Di sicuro hanno
giocato un ruolo determinante le politiche pubbliche a sostegno dell’economia. Che non possono continuare all’infinito. Per l’Italia, comunque, nella migliore delle ipotesi si prevedono a fine
anno, decimale più decimale meno, dieci punti di perdita del Pil.

Non saprei dire se l’attuale crisi costringerà a cambiare parametri e modelli socio-economici come tanti millenaristi si augurano verso stili di vita che una parte
consistente dell’establishment sta cercando di foggiare. Bisogna essere preparati, però, e non dare per scontato quanto lo era fino a poc’anzi.

 

La resistenza alla crisi dimostrata finora (dal manifatturiero) e il suo peso nell’economia italiana dimostrano che le politiche di de-industrializzazione vanno
definitivamente archiviate.

Per il sistema (e il modello) produttivo italiano perlomeno nel medio periodo potrebbe profilarsi una sola via d’uscita: trasformarsi da sistema mirato alle
esportazioni a sistema orientato ai consumi interni. Detta così sembra una soluzione drastica ma il cambiamento non dev’essere a 180 gradi e forse nemmeno a 90. Il nostro Paese deve rimanere tra
i leader nell’export (922 categorie di prodotto italiane sono tra le prime tre al mondo per capacità di generazione di surplus commerciale) ma abituarsi a ricavare per non si sa quanti anni meno
dei 111 miliardi di surplus registrati l’anno scorso. E comunque per rimanere su questi livelli è indispensabile ricondurre in Italia imprese necessarie a mantenere nel nostro Paese la filiera
dei prodotti di eccellenza. Ed elevare i redditi dei lavoratori, a qualsiasi livello. Ormai la differenza tra reddito medio del lavoratore italiano e reddito medio in Europa è superiore ai sette
punti. La politica dei bonus elargiti dall’Inps a sua volta non può durare all’infinito. E’ giusto non lasciare nessuno indietro.

 

Ma altrettanto giusto è retribuire il lavoro per farne un valore anche economico oltre che sociale e renderlo attraente. Probabilmente agire sulla leva fiscale è la
strada obbligata.

Se si vuole sostenere efficacemente il sistema produttivo nazionale, soprattutto nella trainante industria manifatturiera, vanno rimossi gli ostacoli che da troppo
tempo si frappongono tra il nostro Paese e lo sviluppo. I soliti. Contributi a pioggia spesso inconcludenti, burocrazia asfissiante, credito non tagliato sul nostro sistema produttivo, formazione
inadatta, territorio disastrato dal punto di vista naturale e abbandonato in troppe aree a se stesso dal punto di vista della sicurezza, un Total tax rate sull’impresa italiana tipo superiore al
60% sono i principali.

 

Ogni euro a disposizione va investito nell’opera di sgombero. Senza sperare messianicamente, e talvolta – credo – in malafede, che “andrà tutto bene”, ogni cosa si
sistemerà da sola, i prestiti europei ci risolveranno i problemi come una bacchetta magica. Arriva sempre il momento che i prestiti vanno pagati. E per pagarli bisogna produrre ricchezza.
L’alternativa è il modello venezuelano. Mentre l’informazione mainstream ci indica la California. O Bengodi. 


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